Qual è la formula giusta, l’equilibrio con cui si può provare a vivere di musica, di arte?
Una bella chiacchierata con giovani eccellenti amici musicisti, oggi a pranzo.
“Campare, bisogna campare”, mi dici. E come posso non essere d’accordo.
E quindi ben vengano i concerti, possibilmente ben pagati, con un’anziana cantante, a cantare e suonare per anziani nostalgici degli anni ’60, ben vengano le serate nei locali, i matrimoni, la musica d’intrattenimento. Cantare bene, suonare bene, con professionalità. Sì, questo è giusto e va fatto, e fa anche bene. Abbiamo studiato, ci siamo esercitati, questo ce l’abbiamo. Ma posso accontentarmi di questo sano artigianato (so leggere le parti scritte, so interpretare, so gestire il palco, mi metto a servizio degli arrangiamenti, senza giudicare, senza ideologia), o la musica mi chiede qualcosa di più, di diverso? Secondo me la musica mi chiede anche di andare oltre, mi chiede di cercare, di lasciare delle tracce, di segnare qualche sentiero di evoluzione, anche piccola, minima, rispetto a ciò che già c’è. Le due cose non sono per forza incompatibili. Posso guadagnarmi da vivere mettendo la mia maestria al servizio della musica altrui, o anche facendo un’altro lavoro, o anche insegnando a suonare, e nello stesso tempo produrre cose mie, rischiare, uscire dalla zona di comfort, fare un piccolo passo alla volta e lasciare una traccia del mio percorso.
In questo modo l’arte si rigenera e cresce e posso stendere con più serenità il progetto in un arco di tempo ampio, nell’arco di tutta un’esistenza.